Acque reflue: le risposte della Legge

Scopriamo cosa ha risposto la Legge attraverso sentenze della Cassazione in cause per reati civili o penali relativi al problema delle acque reflue



Acque meteoriche: quando diventano reflui industriali?

Autorità: Cass. Pen. Sez. III
Data: 30/08/2019
n. 36701

Le acque meteoriche da dilavamento sono costituite dalle sole acque piovane che, cadendo al suolo, non subiscono contaminazioni con sostanze o materiali inquinanti, poiché, altrimenti, esse vanno qualificate come reflui industriali ex art. 74, comma 1, lett. h), D. L.vo 152/2006, con conseguente configurabilità del reato di scarico non autorizzato.

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Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza del 26 febbraio 2019 la Corte di Appello di Firenze confermava la sentenza del 15/09/2017, del tribunale di Pistoia, con cui E. G. e C. R. erano stati condannati, ciascuno, alla pena di mesi tre di arresto in relazione al reato ex artt. 110 cod. pen. e 256 comma 1 lett. a) e comma 2 in relazione all’art. 192 comma 2 Dlgs. 152/06 e s.m.i., perché il primo quale amministratore unico delle ditte E. e M. ed il secondo quale autista – meccanico, dipendente della ditta M. alla guida di un’autocisterna attrezzata per spurgo di pozzi neri, in concorso tra loro, il primo disponendone l’esecuzione ed il secondo eseguendola materialmente, immettevano nelle acque superficiali di un corso d’acqua pubblico rifiuti liquidi. In Montecatini Terme il 22.7.2014 e 1.08.2014.
  2. Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso E. G. e C. R. mediante il proprio difensore, prospettando tre comuni motivi di impugnazione che si riportano ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
  3. Con il primo motivo hanno dedotto i vizi di cui all’art. 606 comma 1 lett. b)ed e) cod. proc. pen. per inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, mancanza o illogicità della motivazione, inutilizzabilità e/o nullità dei prelievi e dei risultati analitici effettuati dagli operatori Arpat. Il campionamento effettuato non sarebbe rappresentativo di quanto contenuto in cisterna, laddove secondo le metodiche IRSA sarebbe stato necessario un terzo campionamento e la miscelazione dei campioni per omogeneizzare la massa. Sul punto la decisione della corte circa la correttezza del campionamento sarebbe quindi omessa, per non avere i giudici spiegato le ragioni del ricorso ad un campionamento istantaneo, limitandosi ad un rinvio alla sentenza di primo grado che fa riferimento al riguardo alla circostanza per cui era in corso lo sversamento. Né giustifica il ricorso a tale campionamento la possibilità – altrimenti – della formazione di sedimenti. Laddove il campionamento istantaneo è consigliato solo per controllare scarichi accidentali e/o occasionali di brevissima durata. Né le ragioni della scelta del campionamento istantaneo risultano illustrate, come invece dovuto, nel verbale di campionamento, trattandosi di attività svolta ai sensi dell’art. 223 disp. att. cod. proc., a garanzia della legittimità dell’accertamento. L’omessa motivazione da parte degli operatori emerge anche dalla mancata indicazione del numero di campioni prelevati, della loro durata e frequenza, né si è data contezza del rispetto delle linee guida in tema di conservazione di campioni acquosi tra il campionamento e l’analisi, per evitare l’alterazione dei COD; inoltre nel caso di un campione, denominato B, non fu prelevato un quantitativo idoneo a consentire il controllo del COD, indispensabile allorquando un dato analitico deve essere confrontato con i limiti di legge. La scelta del campionamento istantaneo inoltre, è illogica a fronte della possibilità per i tecnici operatori di disporre della cisterna per il tempo necessario per le corrette verifiche. A fronte di tali rilievi e della assenza di giustificazioni nei verbali, conseguirebbe l’inutilizzabilità o nullità dei campionamenti effettuati.
  4. Con il secondo motivo hanno dedotto il vizio di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) cod. proc. pen. per inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, per il mancato assolvimento dell’onere della prova circa la provenienza dei liquidi contenuti nell’autocisterna, atteso che dalla somma dei volumi dei pozzetti considerati emergerebbe un dato quantitativo incompatibile con i 14.500 litri contenuti nella cisterna. Circostanza che avvalorerebbe la tesi della presenza in essa di acque piovane raccolte per “rendere fruibili i piazzali rimasti allagati dall’acqua caduta”.
  5. Con il terzo motivo hanno dedotto il vizio di cui all’art. 606 comma 1 lett. e)cod. proc. pen. per mancanza o illogicità della motivazione e violazione e falsa applicazione dell’art. 192 DIgs• 152/06. La corte avrebbe omesso ogni motivazione sulle doglianze sollevate in ordine alla normativa da applicare. In base ai dati probatori emersi deve ritenersi che nella cisterna fossero presenti “acque meteoriche di dilavamento dei piazzali limitrofi frammiste a sostanze oleose che su questi possono trovarsi”, con conseguente applicazione della disciplina sulle acque di dilavamento e prima pioggia e non quindi quella sui rifiuti liquidi, laddove la prima non assume rilievo penale, atteso che alla luce delle norme vigenti e, tra queste, degli artt. 74 e 113 del Dlgs. 152/06, le acque meteoriche di dilavamento ancorchè venute a contatto con materiali o sostanze anche inquinanti connesse all’attività esercitata nello stabilimento, non possono essere assimilate ai rifiuti industriali. Piuttosto, il Dlgs 152/06 demanderebbe alle regioni l’elaborazione della disciplina, di rilevanza amministrativa, delle predette acque e, ai sensi della legge regionale 20/06 e del regolamento di attuazione di cui al Decreto del Presidente della Giunta Regione Toscana n. 46/R/08, le acque meteoriche successive a quelle di prima pioggia possono essere scaricate direttamente in un corpo idrico superficiale. Con conseguente infondatezza dell’accusa.

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è inammissibile
  2. Riguardo al primo motivo di impugnazione, i giudici del merito spiegano il ricorso al campionamento istantaneo invece che alla raccolta di un campione medio con la particolare attività accertata, consistente in uno sversamento in corso d’opera, così da rendere necessario verificare cosa si stesse riversando in quel momento, oltre che con l’esigenza di evitare, in caso contrario, l’eventualità di una sedimentazione dei componenti presenti nel liquido, con alterazione dei valori finali, ove si consideri che la cisterna veniva rinvenuta a poca distanza dal luogo di produzione del rifiuto liquido e quindi a fronte di un ragionevole, breve intervallo di carico. Inoltre, dai duplici campionamenti effettuati emergeva, secondo quanto riportato in sentenze, una rilevante quantità di idrocarburi, così da rendere irrilevante il tema della eventuale presenza anche di acque meteoriche. Si tratta di una motivazione conforme al consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui la metodica normale, quale quella del campionamento medio nell’arco delle tre ore, non esclude che l’organo di controllo possa procedere ad un campionamento diverso, anche istantaneo, in considerazione delle caratteristiche del ciclo produttivo, del tipo di scarico (continuo, discontinuo, istantaneo), del tipo di accertamento, qualora ciò sia giustificato da particolari esigenze (cfr. anche in motivazione, Sez. 3, n. 30135 del 05/04/2017 Rv. 270325 – 01 Boschi). Ed invero, a fronte di uno scarico da autobotte in corso – dalla durata non prolungata, tanto più in rapporto al tempo richiesto per la normale metodica di campionamento -, già astrattamente idoneo a risultare non conforme alla luce delle modalità di svolgimento come indicate nel capo di imputazione, il campionamento istantaneo, peraltro operato presso due distinti punti di prelievo, costituiva il necessario e ineludibile mezzo di immediata verifica della legittimità. Nel caso di specie peraltro, la stessa ammissione della difesa, circa la presenza di valori di idrocarburi, rende evidente la validità del campionamento effettuato. In tale quadro, va ribadito che la giurisprudenza di questa corte è costante nel ritenere che la metodologia indicata dal legislatore per il prelievo e il campionamento degli scarichi idrici ha carattere amministrativo e, come tale, non assurge a fonte di prova legale del carattere extratabellare degli scarichi, salva la ovvia facoltà del giudice di valutare l’attendibilità tecnica delle analisi compiute su campioni prelevati con metodiche diverse da quelle suggerite dal legislatore. Infatti, con decisione assolutamente condivisibile, questa Corte ha da tempo avuto modo di precisare che “la norma sul metodo di campionamento dello scarico ha carattere procedimentale, non sostanziale, sicché non può configurarsi come norma integratrice della fattispecie penale: essa indica il criterio tecnico ordinario per il prelevamento, ma non esclude che il giudice possa motivatamente valutare la rappresentatività di un campione che, per qualsiasi causa, non è stato potuto prelevare secondo il criterio ordinario” (cfr. Cass. Sez. III, n. 14425 del 21.1. 2004, dep. il 24.3.2004, Lecchi; in motivazione, Sez. 3, n. 29884 del 06/07/2006 Rv. 234662 – 01 Ripamonti.) Consegue che non integra un vizio di inutilizzabilità dei campioni e conseguenti analisi, il mancato rispetto del metodo di campionamento “ordinario” né tantomeno l’assenza nei verbali di campionamento – peraltro nel caso di specie solo asserita e non allegata – dei motivi del ricorso al metodo di prelievo istantaneo, atteso che, per quanto sopra esposto, ciò che rileva è la adeguatezza della motivazione con cui l’organo giudicante ritenga congruo il ricorso allo specifico campionamento del caso concreto. Laddove tale motivazione non rileva sul piano della “inutilizzabilità” bensì solo su quello della adeguata rappresentatività – e quindi della efficacia probatoria – del metodo di prelievo utilizzato. In tal modo emerge la manifesta infondatezza anche delle ulteriori censure proposte in tema di inutilizzabilità o nullità dei campionamenti in rapporto ad asserite carenze motivazionali dei correlati verbali.
  3. Anche il secondo motivo è manifestamente infondato. Innanzitutto l’eventuale mancato assolvimento dell’onere della prova, sub specie della dimostrazione della provenienza dei liquidi contenuti nell’autocisterna, non rileva sotto il profilo del dedotto vizio di violazione di legge sostanziale, bensì sul piano della adeguata motivazione della ricostruzione dell’ipotesi accusatoria. Né può essere validamente dedotto in questa sede sub specie della violazione di norma processuale quale l’art. 192 cod. proc. pen., la cui inosservanza non è sanzionata in termini di inutilizzabilità nullità inammissibilità o decadenza (cfr. Sez. 4 – , n. 51525 del 04/10/2018 Rv. 274191 – 02 M). Cosicchè già sotto tali profili il motivo è inammissibile. In ogni caso i giudici del merito hanno validamente dimostrato la provenienza dell’autobotte dalla ditta di pertinenza degli imputati, valorizzando le circostanze della presenza, alla guida del camion, del C., dipendente della E. della vicinanza del mezzo, durante lo scarico, all’ingresso della sede della ditta medesima, della presenza nel piazzale della società, di un pozzetto di raccolta delle acque piovane nei cui pressi erano presenti macchie oleose, con vicino anche un pezzo di conduttura.
  4. Quanto al terzo motivo di impugnazione, si premette che in tema di tutela penale dall’inquinamento, le acque meteoriche da dilavamento sono costituite dalle sole acque piovane che, cadendo al suolo, non subiscono contaminazioni con sostanze o materiali inquinanti, poiché, altrimenti, esse vanno qualificate come reflui industriali ex art. 74, comma 1, lett. h), d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (cfr. Sez. 3, n. 6260 del 05/10/2018 Rv. 274857 – 01 Galletti Stefano), con conseguente corretta configurabilità del reato in contestazione in caso, quale quello di specie, di scarico non autorizzato. Posto allora che la stessa difesa riconosce che nelle acque scaricate erano presenti “sostanze oleose” ovvero gli idrocarburi analizzati, consegue la manifesta infondatezza delle censure proposte, prospettanti una inammissibile riconduzione del rifiuto liquido in esame nel quadro della disciplina delle mere acque meteoriche da dilavamento.
  5. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che i ricorsi debbano essere dichiarati inammissibili, con conseguente onere per i ricorrenti, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che ciascun ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

(omissis)

Quando cessa la permanenza del reato di scarico senza autorizzazione?

Autorità: Cassazione Penale Sez. VII
Data: 11/06/2019
n. Ord. n. 25666

Il reato di scarico di acque reflue industriali senza autorizzazione, così come prevista dall’art.124 D.L.vo n. 152/2006 e le cui relative sanzioni sono indicate all’art. 137 del medesimo decreto, ha natura permanente in quanto si consuma fino al rilascio dell’autorizzazione o alla cessazione dello scarico.  

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Ritenuto in fatto e considerato in diritto

  1. Il Tribunale di Cagliari con la sentenza in epigrafe indicata ha condannato A.E. alla pena di € 3.000,00 di ammenda relativamente al reato di cui al in relazione al 124, d. L.gs. 152/2006; accertato il 9 ottobre 2013.
  2. Ricorre per cassazione l’imputato, tramite difensore, con distinti motivi di ricorso: violazione di legge, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione relativamente alla mancata prescrizione; all’atto del secondo accertamento si è accertata solo la mancanza di autorizzazione ma non anche lo scarico delle acque; violazione di legge per la mancata concessione della sospensione condizionale della pena.
  3. Il ricorso risulta inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi, generico e articolato in fatto. Richiede inoltre una rivalutazione del fatto non consentita in sede di legittimità. Per la sospensione condizionale della pena, la stessa non è stata richiesta e quindi il Giudice non doveva motivare, anzi sarebbe illegittima una sospensione senza richiesta di una pena pecuniaria (Cass. sez. 3, 17 novembre 2016, n. 48569).

La sentenza impugnata (unitamente alla decisione di primo grado per l’accertamento del fatto) con motivazione adeguata, immune da contraddizioni e da manifeste illogicità, rileva come il reato risulta permanente e la cessazione della permanenza deve ritenersi alla data del sopralluogo del 9 ottobre 2013, con la constatazione dell’attività del lavaggio a quella data. In tema di inquinamento idrico, il reato di scarico di acque reflue industriali senza autorizzazione ha natura permanente, in quanto si consuma fino al rilascio dell’autorizzazione o alla cessazione dello scarico. (Sez. 3, n. 26423 del 11/02/2016 – dep. 24/06/2016, Nappi, Rv. 26709901).

Alla dichiarazione di inammissibilità consegue il pagamento in favore della Cassa delle ammende della somma di € 3.000,00, e delle spese del procedimento, ex art 616 cod. proc. pen.

(Omissis)

Reflui provenienti da impianti di autolavaggio: non possono essere assimilati a quelli domestici

Autorità: Cass. Pen. Sez. III
Data: 20/06/2019
n. 27516

Lo scarico dei reflui provenienti da impianti di autolavaggio, eseguito in assenza di autorizzazione, integra il reato di cui all’art. 137, comma 1, D.L.vo. n. 152/2006 (scarico non autorizzato), perché tali acque non possono essere assimiliate a quelle domestiche, stante la presenza di caratteristiche inquinanti diverse e più rilevanti di quelle di un insediamento civile, per la presenza di oli minerali, sostanze chimiche e particelle di vernice che possono staccarsi dalle autovetture.

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Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza del 19 marzo 2018 il Tribunale di Noia, in esito a giudizio abbreviato, ha dichiarato C.R. responsabile del reato di cui all’art. 137 d.lgs. 152/2006 (per avere, quale titolare di un autolavaggio, scaricato nella fognatura pubblica le acque reflue provenienti dal piazzale adibito al parcheggio delle automobili e al loro lavaggio), condannandolo alla pena, condizionalmente sospesa, di euro 2.000,00 di ammenda.
  2. Avverso tale sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
    1. 2.1.Con un primo motivo ha lamentato la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 137 d.lgs. 152/2006 e l’illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) et e), cod. proc. pen., con riferimento alla affermazione della configurabilità di uno scarico di reflui non autorizzato, sia perché lo scarico delle acque provenienti dal lavaggio degli autoveicoli era del tutto occasionale; sia per la mancanza di indagini sul contenuto inquinante di tali acque, nelle quali non era quindi stata accertata la presenza di agenti chimici tali da farle rientrare nella categoria delle acque industriali anziché di quelle domestiche, con la conseguente erroneità della affermazione della sussistenza di uno scarico non autorizzato di acque industriali, tenendo conto del fatto che occorreva avere riguardo al tipo di attività da cui provenivano le acque, che nella specie consisteva in un semplice parcheggio di autoveicoli a motore.
      1. 2.2.Con un secondo motivo ha lamentato la insufficienza della motivazione, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) et e), con riferimento al diniego delle circostanze attenuanti generiche e alla misura della pena, non avendo la Corte in alcun modo considerato la richiesta di riconoscimento di tali circostanze, avanzata dalla difesa nel corso della discussione, sottolineando la occasionalità dell’attività di autolavaggio.

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è inammissibile.
  2. Il primo motivo, mediante il quale sono state lamentate l’insufficienza della motivazione e l’errata applicazione della norma incriminatrice contestata, a causa dell’omesso accertamento delle caratteristiche delle acque provenienti dall’impianto di autolavaggio gestito dall’imputato, è inammissibile, sia perché è volto a censurare un accertamento di fatto compiuto dal giudice del merito (circa la natura di acque industriali dei reflui provenienti da tale impianto, fondato, correttamente, sulle caratteristiche dello stesso e dell’attività ivi svolta, tra l’altro mediante l’impiego di detersivi utilizzati per il lavaggio delle automobili); sia perché si pone in contrasto con un consolidato orientamento interpretativo di questa Corte, secondo cui lo scarico dei reflui provenienti da impianti di autolavaggio, eseguito in assenza di autorizzazione, integra il reato di cui all’art. 137, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006, perché tali acque non possono essere assimiliate a quelle domestiche, stante la presenza di caratteristiche inquinanti diverse e più rilevanti di quelle di un insediamento civile, per la presenza di oli minerali, sostanze chimiche e particelle di vernice che possono staccarsi dalle autovetture (cfr. Sez. 3, n. 51889 del 21/07/2016, D’Ambrosio, Rv. 268398; Sez. 3, n. 26543 del 21/05/2008, Erg Petroli S.p.a. e altro, Rv. 240537, nella quale, in motivazione, è stato precisato che la modifica apportata alla nozione di scarico dal d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4 è strumentale unicamente a riaffermare la nozione di scarico diretto, riproponendo in forma più chiara e netta la distinzione esistente tra la nozione di acque di scarico e quella di rifiuti liquidi; v. anche Sez. 3, n. 985 del 05/12/2003, Marziano, Rv. 227182).
  3. Quanto al secondo motivo, relativo all’ingiustificato diniego del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, va rilevato che l’imputato non ne aveva fatto richiesta, posto che, come risulta dal verbale dell’udienza di discussione innanzi al Tribunale, all’atto della formulazione delle conclusioni il suo difensore aveva chiesto solamente l’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis, il contenimento della pena nel minimo edittale e il riconoscimento dei benefici di legge (cioè della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna), cosicché, in assenza di una richiesta, non vi era neppure un obbligo di specifica motivazione circa il diniego di dette circostanze, in quanto la presunzione di non meritevolezza di tali circostanze impone al giudice di primo grado di spiegare le ragioni che giustificano la decisione di mitigare il trattamento sanzionatorio attraverso la loro concessione, mentre nel caso di mancato riconoscimento di tale riduzione l’obbligo di motivazione non sussiste, in assenza di richiesta da parte dell’interessato o nell’ipotesi di richiesta generica (Sez. 3, n. 35570 del 30/05/2017, Di Luca, Rv. 270694; conf. Sez. 2, n. 38383 del 10/07/2009, Squillace, Rv. 245241; v. anche Sez. 5, n. 7562 del 17/01/2013, La Selva Rv. 254716).

Ne consegue manifesta infondatezza della censura di carenza di motivazione formulata riguardo al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

4. Il ricorso deve, in conclusione, essere dichiarato inammissibile, stante la genericità e la manifesta infondatezza delle censure cui è stato affidato.

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (Corte Cost. sentenza 7 – 13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento, nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si determina equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro 2.000,00.

In applicazione del decreto del Primo Presidente di questa Corte n. 84 del 2016 la motivazione è redatta in forma semplificata, in quanto il ricorso non richiede, ad avviso del Collegio, l’esercizio della funzione di nomofilachia e solleva questioni giuridiche la cui soluzione comporta l’applicazione di principi di diritto già affermati e che il Collegio condivide.

(Omissis)

Acque meteoriche contaminate: acque meteoriche di dilavamento o reflui industriali?

Autorità: Cass. Pen. Sez. III
Data: 08/02/2019
n. 6260

In materia di acque, le acque meteoriche da dilavamento sono costituite dalle sole acque piovane che, cadendo al suolo, non subiscono contaminazioni con sostanze o materiali inquinanti, poiché, altrimenti, esse vanno qualificate come reflui industriali ai sensi dell’art. 74, lett. h), del D.L.vo. n. 152 del 2006. L’eliminazione dell’inciso “intendendosi per tali” (cioè per acque meteoriche di dilavamento) “anche quelle venute in contatto con sostanze… non connesse con le attività esercitate nello stabilimento” dal testo del citato art. 74 lett. h) ad opera dell’art. 2 comma 1 n. 4 del d.lgs. 16 gennaio 2008 è frutto di una precisa scelta del legislatore, indicando proprio l’intenzione di escludere qualunque assimilazione di acque contaminate con quelle meteoriche di dilavamento.

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Ritenuto in fatto

Con ordinanza del 27 febbraio 2018, il Tribunale di Bologna, in funzione di Giudice dell’esecuzione, rigettava l’istanza con cui Stefano Galletti aveva chiesto la revoca per abolitio criminis della sentenza del 27 novembre 2012, irrevocabile il 24 maggio 2017, con la quale il Tribunale di Bologna lo aveva condannato alla pena di 1.000 euro di ammenda, in ordine al reato di cui agli art. 124 comma 1 e 137 comma 1 del d. Igs. n. 152 del 2006, per avere, quale socio accomandatario e direttore tecnico della società “S.s.s “, effettuato scarichi di acque reflue industriali in assenza della prescritta autorizzazione.

2.Avverso l’ordinanza del Tribunale emiliano, Galletti, tramite il difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando un unico motivo, con cui censura la violazione degli art. 74 comma 1, lett. h) e 137 comma 1 del d. Igs. 152/2006, osservando che, a seguito della modifica normativa operata dall’art. 2 comma 1 del d. Igs. 4/2008, la mancata dotazione di uno scarico in relazione alle acque meteoriche di dilavamento, anche se venute a contatto con altri materiali, non può ritenersi oggi punita penalmente, essendo sanzionata solo in via amministrativa, per cui l’ordinanza impugnata doveva ritenersi illegittima.

Per effetto della nuova formulazione dell’art. 74 comma 1, lett. h) del d. Igs. 152/2006, infatti, per acque reflue industriali devono intendersi solo le acque scaricate da edifici o impianti in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni diverse dalle acque meteoriche di dilavamento.

Nel rilevare l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sul punto, la difesa sollecitava quindi la rimessione della questione di diritto alla Sezioni Unite, al fine di dichiarare l’abolitio criminis della fattispecie incriminata, posto che, allo stato attuale, la diversità tra le acque meteoriche di dilavamento e le acque reflue industriali non risiede più nella purezza delle prime e nella contaminazione delle seconde, ma solo nel fatto che le acque reflue industriali sono diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento, perché solo le prime vengono scaricate da edifici o impianti in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, mentre le seconde precipitano dal cielo e non da edifici o impianti, non sono generate da attività predeterminate e hanno una diversità di caduta, non tramite scarico, ma da precipitazioni.

Considerato in diritto

Il ricorso è infondato.

1.Occorre innanzitutto premettere che il tema della qualificazione giuridica della condotta ascritta all’imputato è stato già affrontato da questa Corte con la sentenza della Settima Sezione n. 24337 del 5 aprile 2017, con cui è stato dichiarato inammissibile, perché manifestamente infondato, il ricorso proposto da Galletti avverso la sentenza del Tribunale di Bologna del 27 novembre 2012. In quella sede è stato infatti osservato che, nel caso di specie, non si verteva nell’ipotesi di acque meteoriche o di prima pioggia, ma di reflui industriali, tali dovendo essere considerate le acque meteoriche a seguito della contaminazione con i materiali stoccati sul piazzale dello stabilimento dell’impresa di cui l’imputato era amministratore e direttore tecnico, per cui, qualificate le acque provenienti dal dilavamento del piazzale dell’impresa come reflui industriali ex art. 74 lett. h) del d. Igs. n. 152 del 2006, è stato ritenuto ravvisabile il reato di cui agli art. 124 comma 1 e 137 comma 1 del predetto decreto, stante l’esistenza di uno scarico in fognatura in mancanza di autorizzazione.

Orbene, essendo divenuto irrevocabile il giudizio di colpevolezza dell’imputato in ordine al reato ambientale a lui contestato, non può ritenersi fondata la richiesta difensiva di una diversa considerazione della rilevanza penale della condotta, tanto più ove si consideri che la citata sentenza della Settima Sezione del 5 aprile 2017 ha richiamato la costante affermazione di questa Corte (Sez. 3, n. 2832 del 02/10/2014, dep. 2015, Rv. 263173), secondo cui, in tema di tutela penale dall’inquinamento, le acque meteoriche da dilavamento sono costituite dalle sole acque piovane che, cadendo al suolo, non subiscono contaminazioni con sostanze o materiali inquinanti, poiché, altrimenti, esse vanno qualificate come reflui industriali ai sensi dell’art. 74, lett. h), del d. Igs. n. 152 del 2006.

È stato infatti precisato con la predetta pronuncia, alla quale si ritiene di dover dare continuità, che il predetto art. 74 del d. Igs. n. 152 del 2006, prima della modifica apportata dall’art. 2 comma 1 n. 4 del d.lgs. 16 gennaio 2008, definiva alla lettera h) le acque reflue industriali come “qualsiasi tipo di acque reflue provenienti da edifici o installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, differenti qualitativamente dalle acque reflue domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali anche quelle venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non connessi con le attività esercitate nello stabilimento”; la norma escludeva dunque dalla nozione di acque reflue industriali quelle meteoriche di dilavamento, che tuttavia non definiva espressamente, precisando solo che dovevano intendersi come tali anche quelle contaminate da sostanze o materiali “non connessi” con quelli impiegati nello stabilimento. Pertanto si riteneva (Sez. 3, n. 33839 del 05/07/2007), prima della modifica, che, qualora le acque meteoriche fossero contaminate da sostanze impiegate nello stabilimento, non dovessero più essere considerate come acque meteoriche di dilavamento, dovendo essere qualificate come reflui industriali.

La formulazione attuale dell’art. 74, lett. h) del d. Igs. n. 152 del 2006 ha invece escluso ogni riferimento qualitativo alla tipologia delle acque e ha eliminato il precedente inciso “intendendosi per tali” (cioè per acque meteoriche di dilavamento) “anche quelle venute in contatto con sostanze… non connesse con le attività esercitate nello stabilimento”: l’eliminazione dell’inciso è stato invero ritenuto frutto di una precisa scelta del legislatore, indicando proprio l’intenzione di escludere qualunque assimilazione di acque contaminate con quelle meteoriche di dilavamento: l’eliminazione dell’inciso, in definitiva, non ha affatto ampliato il concetto di “acque meteoriche di dilavamento”, ma, al contrario, lo ha ristretto in un’ottica di maggior rigore, nel senso di operare una secca distinzione tra la predetta categoria di acque e quelle reflue industriali o quelle reflue domestiche. Oggi, pertanto, le acque meteoriche, comunque venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non possono essere più incluse nella categoria di acque meteoriche di dilavamento, per espressa volontà di legge.

Deve essere dunque ribadito che le acque meteoriche di dilavamento sono costituite dalle sole acque che, cadendo al suolo per effetto di precipitazioni atmosferiche, si depositano su un suolo impermeabilizzato, dilavando le superfici e attingendo indirettamente i corpi recettori, senza subire contaminazioni di sorta con altre sostanze o materiali inquinanti, come avvenuto nel caso di specie.

Di qui la coerente esclusione dell’incidenza in materia della competenza regionale fissata dall’art. 113 del d. Igs. n. 152 del 2006, avendo tale competenza ad oggetto, per espresso dettato normativo, soltanto le acque meteoriche di dilavamento, le acque di prima pioggia e le acque di lavaggio di aree esterne. Come correttamente rilevato dal Procuratore generale, l’ordinanza impugnata, nell’escludere la tesi difensiva della depenalizzazione della condotta contestata, si pone nel solco della più recente elaborazione giurisprudenziale sul punto, per cui le doglianze difensive non possono ritenersi meritevoli di accoglimento, tanto più ove si consideri che il diverso principio di diritto affermato dalla pronuncia richiamata nel ricorso (Sez. 3, n. 2867 del 30/10/2013), dopo essere stato consapevolmente superato dalla successiva sentenza n. 2832 del 02/10/2014, sopra citata, non risulta essere stato più riproposto in sede di legittimità.

3.In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente onere per la ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.

[Omissis].

Perché la condotta di scarico non autorizzato merita una sanzione?

Autorità: Cass. Pen. Sez. III
Data: 15/03/2019
n. 11518

Per quanto concerne la disciplina in tema di inquinamento idrico, la finalità dell’autorizzazione non è soltanto quella di permettere l’apertura e l’effettuazione dello scarico, ma anche di porre l’amministrazione competente nelle condizioni di verificare la sussistenza delle condizioni di legge per il rilascio del titolo abilitativo ed effettuare ogni successiva attività di controllo e prevenzione, con la conseguenza che l’apertura o l’effettuazione di uno scarico in assenza dell’autorizzazione denota una effettiva offensività della condotta, in quanto determina una evidente lesione dell’interesse protetto dal precetto penale.

Lavaggio capannoni: sono acque reflue industriali?

Autorità: Cass. Pen. Sez. III
Data: 09/11/2018
n. 51006

In materia di acque, la nozione di acque reflue industriali (come definita dal D.L.vo 152/2006, art. 74, comma 1, lett. h) comprende tutti i tipi di acque derivanti dallo svolgimento di attività produttive, quindi tutti i reflui che non attengono prevalentemente al metabolismo umano ed alle attività domestiche, cioè non collegati alla presenza umana, alla coabitazione ed alla convivenza di persone, e che non si configurano come acque meteoriche di dilavamento, intendendosi come tali quelle piovane, anche se venute in contatto con sostanze o con materiali. Pertanto, sono da considerare scarichi industriali, oltre ai reflui provenienti da attività di produzione industriale vera e propria, anche quelli provenienti da insediamenti ove si svolgono attività artigianali e di prestazioni di servizi, quando le caratteristiche qualitative degli stessi siano diverse da quelle delle acque domestiche. Di conseguenza, rientrano nella nozione di acque reflue industriali quelle provenienti e scaricate dalle operazioni di lavaggio di capannoni adibiti in forma stabile ad allevamento di animali.

Leggi la sentenza

Ritenuto in fatto

Con sentenza in data 28.9.2017 la Corte di Appello di Bologna ha integralmente confermato la pronuncia resa in primo grado dal Tribunale di Piacenza che aveva dichiarato A.G. colpevole dei reati di cui agli artt. 137 e 256, 2 comma d. Igs. 152/2006 per avere, in qualità di titolare dell’Azienda agricola L. P., effettuato scarichi di acque reflue industriali derivanti dalle operazioni di lavaggio di capannoni adibiti all’allevamento di tacchini (capo a) e per aver depositato, senza la prescritta autorizzazione, rifiuti pericolosi di vario genere sul piazzale dell’azienda e sul terreno circostante, in modo incontrollato (capo b), condannandolo alla pena di € 5.000 di ammenda per il reato di cui al capo a) ed otto mesi di arresto per il reato di cui al capo b)

Avverso il suddetto provvedimento l’imputato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione, articolando quattro motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all’art.173 disp. att. c.p.p..

1.Con il primo motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge e al vizio motivazionale, l’insussistenza del reato di cui all’articolo 137 decreto legislativo 152/2006, in quanto – incontrovertibile il dato che tale imputazione discende dall’esito di una ispezione e dalla documentazione fotografica in atti, secondo cui i dipendenti dell’azienda provvedevano al lavaggio della pavimentazione di un capannone utilizzando pompe a pressione ad acqua che veniva convogliata in una tubatura che sfociava poi in un terreno agricolo – difetterebbe nel caso in esame un sistema stabile di collettamento, sicché, atteso il carattere occasionale dell’operazione, manca una prova chiara della penale responsabilità dell’imputato. A ciò si aggiunge la non qualificabilità delle acque provenienti dal lavaggio del capannone in cui veniva impiegata come industriale, potendo contenere al massimo residui di materia organica e non certo A sostanze chimiche che connotano la pericolosità delle acque reflue;

2.Con il secondo motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge e al vizio motivazionale, l’insussistenza del reato sub B (articolo 256, 2 comma decreto legislativo 152/2006), attesa l’assenza di una prova certa della disponibilità da parte dell’imputato dell’area in cui erano allocati i rifiuti.

3.Con il quarto motivo lamenta, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all’art. 131-bis cod. pen. e al vizio motivazionale, il diniego della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, sussistendo tutti i presupposti richiesti dalla norma, ovverosia la mancanza di abitualità e la lieve offensività, non potendosi ritenere che il mero riferimento alla natura dei rifiuti sia sufficiente a fondare le ragioni del giudicante, sul quale incombe la relativa dimostrazione.

4.Con il quarto motivo lamenta l’omessa pronuncia sulla richiesta della sospensione condizionale della pena, il cui diniego da parte del primo giudice non risultava essere stato motivato.

Considerato in diritto

1.11 primo motivo è inammissibile per la genericità delle censure che, nel riprodurre pedissequamente il contenuto delle doglianze articolate con i motivi di appello, non si confrontano con le puntuali argomentazioni spese dalla Corte distrettuale in ordine alla configurabilità del reato di cui all’art. 137 decreto legislativo 152/2006.

I giudici di merito hanno infatti accertato, con riferimento alla natura delle acque, provenienti dal lavaggio dei capannoni, adibiti) all’interno dell’azienda agricola, all’allevamento dei tacchini) come le stesse confluissero nei tombini di raccolta siti sul piazzale e convogliate con tubazione interrata in un fossato di raccolta, così realizzandosi l’immissione abusiva, in quanto non autorizzata, sanzionata dall’art. 137, comma primo, del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152.

Ciò posto la tesi sostenuta dalla difesa secondo cui le acque in questione non possano ritenersi industriali, contrasta con la consolidata interpretazione di questa Corte, cui ha fatto puntuale riferimento la sentenza impugnata, secondo cui nella nozione di acque reflue industriali definita dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 74, comma 1, lett. h), (come modificato dal D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4) rientrano tutti i tipi di acque derivanti dallo svolgimento di attività produttive, in tale accezione dovendosi ricomprendere tutti i reflui che non attengono prevalentemente al metabolismo umano ed alle attività domestiche, cioè non collegati alla presenza umana, alla coabitazione ed alla convivenza di persone, né si configurano come acque meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali quelle piovane, anche se venute in contatto con sostanze o con materiali (Sez. 3^, n. 12865 del 05/02/2009, Bonaffini, Rv. 243122). Da ciò discende che sono da considerare scarichi industriali, oltre ai reflui provenienti da attività di produzione industriale vera e propria, anche quelli provenienti da insediamenti ove si svolgono attività artigianali e di prestazioni di servizi, quando le caratteristiche qualitative degli stessi siano diverse da quelle delle acque domestiche (Sez. 3, n. 3199 del 02/10/2014 – dep. 23/01/2015, Verbicaro, Rv. 262006).

Devono pertanto pacificamente ritenersi rientranti nella nozione di acque reflue industriali quelle provenienti e scaricate, come nella specie, dalle operazioni di lavaggio di capannoni adibiti in forma stabile ad allevamento di animali.

Né ha pregio l’ulteriore doglianza, secondo cui l’occasionalità delle immissioni renderebbe inapplicabile la normativa contestata, tenuto conto che ad avviso della difesa le fotografie fornite dagli ispettori incaricati del sopralluogo non fornirebbero la prova chiara delle immissioni. Non è certo l’episodicità delle immissioni verificatesi in concreto ad escludere la contravvenzione in esame, rilevando, invece, ai fini della sua configurabilità, l’esistenza, attesa la sua natura di reato di pericolo, di uno stabile sistema di collettamento che unisca il ciclo di produzione del refluo con il suolo, costituito nella specie dalla tubatura interrata confluente nella fossa di raccolta, non essendo richiesto che lo sversamento avvenga nel sistema fognario posto che la norma punisce ogni indebita immissione di acque reflue, in ragione della potenzialità inquinante dell’ambiente, anche nel suolo o nel sottosuolo (Sez. 3, n. 45634 del 22/10/2015 – dep. 17/11/2015, Mora Fulgido, Rv. 265971).

2.Del pari generico è il secondo motivo le cui doglianze sono la puntuale trasposizione di quelle articolate con l’atto di appello, puntualmente disattese dalla sentenza impugnata. Quello che rileva ai fini della configurabilità del reato di deposito incontrollato di rifiuti è, così come correttamente affermato dalla Corte distrettuale, l’attività di stoccaggio e smaltimento di rifiuti, dovendosi considerare tali i materiali ammassati alla rinfusa, senza autorizzazione alcuna, sull’area di cui l’imputato abbia la disponibilità, senza che rilevi, in relazione al rapporto sussistente tra l’imputato e l’area adibita a deposito incontrollato, allorquando non si proceda a confisca della stessa, che si tratti di un possesso di fatto ovvero di una detenzione qualificata da un sottostante rapporto negoziale.

3.Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi anche per il terzo motivo volto a contestare il diniego della speciale causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto.

Dal momento che il giudizio in ordine alla ricorrenza della causa di non punibilità prevista dall’art.131 bis c.p. si configura come un apprezzamento di merito non sindacabile in sede di legittimità se non in presenza di motivazione incongrua o contraddittoria, deve escludersi chela compiuta rappresentazione da parte dei giudici distrettuali delle plurime ragioni evidenziate a fondamento del diniego, costituite dalla natura pericolosa dei rifiuti, dal contemporaneo sversamento delle acque reflue nel terreno in assenza di autorizzazione e degli specifici precedenti penali dall’imputato siano inficiate da qualsivoglia vizio motivazionale, che la stessa difesa non riesce neppure a configurare. Con la suddetta motivazione viene infatti dato conto tanto della offensività della condotta in ragione dei danni ambientali con essa provocati, quanto dell’abitualità della condotta del prevenuto sotto il duplice profilo sia diacronico, avuto riguardo alle precedenti condanne per reati afferenti anch’essi alla normativa ambientale, sia sincronico, stante la pluralità dei reati ascrittigli. Al di là di ogni altra considerazione è pacifico che la causa di esclusione della ri5n possa essere applicata, ai sensi del terzo comma dell’art.131-bis, qualora l’imputato abbia commesso più reati della stessa indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima “ratio punendi”), quali si configurano il capo a) ed il capo b) dell’imputazione, poiché è la stessa previsione normativa a considerare il “fatto” nella sua dimensione “plurima”, secondo una valutazione complessiva in cui perde rilevanza l’eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui esso si articola (Sez. 5, n. 26813 del 10/02/2016 – dep. 28/06/2016, Grosoli, Rv. 267262).

4.Anche il quarto motivo deve essere dichiarato inammissibile. Nessun obbligo di motivazione poteva ritenersi a carico della Corte territoriale, con conseguente inconfigurabilità di alcun deficit argomentativo in ordine al diniego di sospensione condizionale della pena, la quale risulta essere stata solo genericamente invocata con i motivi di appello, senza cioè essere suffragata da specifici elementi idonei a qualificare la fondatezza della domanda.

Va infatti rilevato che la specificità che deve caratterizzare i motivi di appello, seppur valutata alla luce del principio del “favor impugnationis”, deve comunque contrapporre alle ragioni poste a fondamento della decisione impugnata argomentazioni che attengano agli specifici passaggi della motivazione della sentenza ovvero concreti elementi fattuali pertinenti a quelli considerati dal primo giudice, e non può quindi limitarsi a confutare semplicemente il “decisum” del primo giudice con considerazioni generiche ed astratte. Invero la specificità che deve caratterizzare i motivi di appello va intesa in rapporto alla funzione stessa dell’impugnazione, ed implica, perciò, al fine di delineare i presupposti legittimanti l’invocata riforma del provvedimento oggetto di gravame, l’indicazione quantomeno nelle linee essenziali delle ragioni volte a sollecitare una diversa risposta del giudice adito in secondo grado rispetto alle valutazioni del primo giudice che debbono perciò essere espressamente confutate o sovvertite sul piano logico o giuridico e che, quand’anche si risolvano nella reiterazione delle richieste svolte in primo grado, devono comunque confrontarsi con le considerazioni ivi contenute attraverso una puntuale contestazione (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016 dep. 22/02/2017, Galtelli, Rv. 268822).

Segue all’esito del ricorso la condanna del ricorrente a norma dell’art. 616 c.p.p. al pagamento delle spese processuali e, non sussistendo elementi per ritenere che abbia proposto la presente impugnativa senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma equitativamente liquidata alla Cassa delle Ammende.

[omissis]

Quali sanzioni per la violazione della disciplina regionale?

Autorità: Cass. Pen. Sez. III
Data: 10/07/2018
n. 31389

L’art. 137, comma 9 del D.L.vo 152\\2006 punisce, con le sanzioni stabilite dal primo comma, chiunque non ottempera alla disciplina dettata dalle regioni ai sensi dell’articolo 113, comma 3, il quale, a sua volta, prevede che le regioni disciplinino i casi in cui può essere richiesto che le acque di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne siano convogliate e opportunamente trattate in impianti di depurazione per particolari condizioni nelle quali, in relazione alle attività svolte, vi sia il rischio di dilavamento da superfici impermeabili scoperte di sostanze pericolose o di sostanze che creano pregiudizio per il raggiungimento degli obiettivi di qualità dei corpi idrici (nella specie, si trattava di un parcheggio a servizio di un’attività principale, ipotesi che la legge regionale prevedeva quale esenzione agli obblighi di installazione dei dispositivi di gestione delle acque di prima pioggia)

Leggi la Sentenza

Ritenuto in fatto

1. Il Tribunale di Forlì, con sentenza del 17 gennaio 2017 ha riconosciuto A.P. responsabile della contravvenzione di cui agli artt. 137, comma 9 d.lgs. 152\06 in relazione all’art. 113, comma 3 del medesimo decreto e lo ha condannato alla pena dell’ammenda per non aver provveduto a richiedere, quale legale rappresentante di una società consortile, l’autorizzazione all’ente competente per lo scarico di acque reflue di prima pioggia e/o di dilavamento nei modi e nei tempi fissati dalla deliberazione della giunta regionale dell’Emilia Romagna 14 febbraio 2005, n. 286 per una parte di un’area utilizzata come distributore carburanti, lavaggio automezzi, zona cambio olio, strade, stalli e deposito di materiali priva di trattamento delle acque meteoriche (in Cesena, accertato il 29/4/2015).
Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.Con un primo motivo di ricorso osserva che il giudicante, dopo aver riportato testualmente quanto stabilito dalla lettera g) della deliberazione della giunta regionale dell’Emilia Romagna 14 febbraio 2005, n. 286, avrebbe omesso di considerare le relative eccezioni indicate nella medesima lettera g) pur nella consapevolezza che i mezzi presenti nell’area erano in condizioni di stallo o parcheggio, come dimostrato dalle risultanze dell’istruzione dibattimentale.
3.Con un secondo motivo di ricorso lamenta la mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.

Insiste, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.

Considerato in diritto

1.Il ricorso è fondato nei termini di seguito specificati.

2.L’art. 137, comma 9 d.lgs. 152\06 punisce, con le sanzioni stabilite dal primo comma, chiunque non ottempera alla disciplina dettata dalle regioni ai sensi dell’articolo 113, comma 3, il quale, a sua volta, prevede che le regioni disciplinino i casi in cui può essere richiesto che le acque di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne siano convogliate e opportunamente trattate in impianti di depurazione per particolari condizioni nelle quali, in relazione alle attività svolte, vi sia il rischio di dilavamento da superfici impermeabili scoperte di sostanze pericolose o di sostanze che creano pregiudizio per il raggiungimento degli obiettivi di qualità dei corpi idrici.

Nel caso di specie, tale disciplina è stata dettata con la deliberazione della giunta regionale dell’Emilia Romagna 14 febbraio 2005, n. 286 “Direttiva concernente indirizzi per la gestione delle acque di prima pioggia e di lavaggio da aree esterne”, con la quale vengono fornite indicazioni circa le forme di controllo ed i criteri di gestione delle acque meteoriche di dilavamento provenienti dalle reti fognarie e delle acque di prima pioggia e di lavaggio da aree esterne degli insediamenti, con motivazioni specifiche tra le quali figurano quelle di cui alla lettera g), richiamata in sentenza ed in ricorso.
Tale lettera, considerando i risultati degli studi e delle ricerche richiamate alla lettera a), che mostrano come il carico inquinante connesso con le acque meteoriche di dilavamento da aree esterne agli insediamenti sia determinato principalmente dagli usi effettivi alle quali sono destinate, in coerenza con il criterio costi-benefici, ha ritenuto di dover prevedere alcune esenzioni agli obblighi di installazione dei dispositivi di gestione delle acque di prima pioggia che riguardano le aree e superfici esterne scoperte degli stabilimenti o insediamenti adibite, tra l’altro, esclusivamente a parcheggio degli autoveicoli a servizio delle maestranze o dei clienti, ovvero al transito di automezzi, anche pesanti, per le normali operazioni di carico e scarico.

3.Il Tribunale, dando atto della accertata destinazione dell’area a parcheggio, evidenzia come, a seguito di diffida da parte dell’amministrazione provinciale, conseguente all’accertamento secondo il quale si era ritenuto che dai mezzi collocati nell’area potessero liberarsi sostanze inquinanti nelle acque meteoriche, l’imputato avesse presentato un piano di gestione delle acque di prima pioggia, successivamente approvato.
Aggiunge il Tribunale che colui che aveva eseguito il sopralluogo, nel corso della sua deposizione testimoniale, aveva riferito di non aver potuto osservare, sul posto, l’esecuzione di attività diverse dal mero stallo e parcheggio di automezzi e, richiamato il contenuto della citata lettera g) della deliberazione della giunta regionale, pur dando atto della circostanza che l’area in questione fosse di fatto adibita soltanto ad area di solo parcheggio, ha testualmente aggiunto che la stessa “rileva tuttavia quale pertinenza di altre attività principali esercitate nel centro per l’autotrasporto di Cesena, di talché correttamente la Provincia ha richiesto un piano di gestione delle acque di prima pioggia, in conformità con le previsioni della DGR 286/05”.

4.Ciò posto, osserva il Collegio che la sentenza impugnata, pur dando atto del contenuto della disposizione regionale considerata e, segnatamente, delle esenzioni in essa previste, nonché della dimostrata destinazione dell’area a mero stallo o parcheggio, perviene poi a conclusioni che con tale disposizioni risultano porsi in evidente contrasto, valorizzando una “destinazione a pertinenza di altre attività principali” dell’area in questione che non trova riscontro nelle precedenti affermazioni nelle quali detta area si assume essere destinata esclusivamente a parcheggio, circostanza, questa, che come osservato dal ricorrente, avrebbe comportato l’esenzione dagli obblighi ritenuti violati.
Neppure risulta risolutivo l’ulteriore richiamo alla diffida dell’amministrazione provinciale, rispetto alla quale, in precedenza, la sentenza offre un sommario richiamo senza specificarne i contenuti e limitandosi a riferire che la stessa era fondata sulla possibilità del rilascio di sostanze inquinanti dai mezzi parcheggiati.

5.Si impone pertanto l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata affinché il Tribunale possa rimediare al rilevato vizio motivazionale.
La natura assorbente della questione appena esaminata esonera il Collegio dalla trattazione dell’ulteriore motivo di ricorso.
[omissis]

Scarico difforme a quanto in autorizzazione: è reato?

Autorità: Cass. Pen. Sez. III
Data: 17/11/2017
n. 52606

In materia di scarichi, colui che lo effettua in maniera difforme rispetto a quanto previsto nell’autorizzazione rilasciata, realizza, in realtà, uno scarico abusivo, sanzionato dall’art. 137 del D.L.vo 152/2006 (Nel caso di specie, a dare prova della condotta di scarico abusivo concorrevano sia il malfunzionamento dell’impianto di depurazione, sia il posizionamento a monte dell’impianto di una valvola che non figura nel progetto allegato alla richiesta di autorizzazione).

Leggi la sentenza

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza in data 17 ottobre 2016, il Tribunale di Ragusa ha condannato A.P. , alla pena di C 8.000,00 di ammenda, per il reato di cui all’art. 137 commi 1 e 4, d.lgs n. 152 del 2006, per avere, quale legale rappresentante della C.S. srl, effettuato lo scarico di acque reflue industriali provenienti dallo stabilimento di produzione di prodotti caseari della predetta società, direttamente nella condotta fognaria, mediante bypass, senza preventivo trattamento, contrariamente a quanto previsto nell’autorizzazione rilasciata e così realizzato uno scarico abusivo. Fatto accertato in Ragusa il 22/05/2013.

2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso A.P. , a mezzo dei difensori di fiducia, e ne ha chiesto l’annullamento, deducendo, quale unico motivo, la violazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. e) cod.proc.pen. per avere, il Giudice, illogicamente motivato l’affermazione della responsabilità, in palese ravisamento della prova testimoniale.

Il Tribunale avrebbe fondata la responsabilità del P.  sull’esclusiva valutazione delle prove accusatorie, ignorando quelle della difesa senza giustificare le ragioni della ritenuta fondatezza delle prime e anche con travisamento delle prove.

Il Tribunale avrebbe omesso di considerare le discordanze, sulla ricostruzione del fatto, derivanti dalle prove testimoniali assunte, segnatamente avrebbe omesso di considerare che al momento del sopralluogo non era in atto alcuno scarico, che non risultava provato che l’impianto di depurazione fosse in una condizione di “precaria funzionalità”, che la valvola che consentiva di azionare il bypass fosse stata azionata dal ricorrente che aveva affittato l’azienda solo nel 2012 (mentre l’impianto risalirebbe ad un epoca precedente).

Conclusivamente la sentenza avrebbe ignorato il disposto di cui all’art. 192 cod.proc.pen. che impone l’assoluzione in presenza di indizi che non assumono la gravità, precisione e concordanza, non potendo la mera “mancata funzionalità dell’impianto” e “la circostanza che la valvola si presentava libera nei movimenti” soddisfare il requisito normativo della valutazione della prova.

3. In udienza, il Procuratore generale ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile.

 

Considerato in diritto

4. Il ricorso è inammissibile per la proposizione di un motivo manifestamente infondato. Esso appare diretto, attraverso la deduzione di un travisamento della prova, a richiedere una rivalutazione delle emergenze probatorie in chiave alternativa a quella ricostruita dal giudice del merito e sulla base della quale ha correttamente inquadrato la fattispecie normativa quale violazione del disposto di cui all’art. 137 commi 1 e 4, del d.lgs 152 del 2006 ed ha, conseguentemente affermato, sulla scorta delle emergenze probatorie, la responsabilità penale dell’imputato.

5. Al proposito va ricordato che, anche dopo la novella dell’art. 606 lett, e) cod.proc.pen. ad opera della legge 46 del 2006, per il giudice della legittimità, è esclusa la possibilità di effettuare un’indagine sul discorso giustificativo della decisione, finalizzata a sovrapporre la propria valutazione a quella già effettuata dai giudici di merito, dovendo il giudice della legittimità limitarsi a verificare l’adeguatezza delle considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per giustificare il suo convincimento, mentre la mancata rispondenza di queste ultime alle acquisizioni processuali può, soltanto ora, essere dedotta quale motivo di ricorso qualora comporti il c.d. “travisamento della prova”, che, per la sua valutazione richiede a pena di inammissibilità (Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio, Rv. 258774; Sez. 6, n. 45036 del 02/12/2010, Damiano, Rv. 249035; Sez. 1, n. 20344 del 18/05/2006, Salaj, Rv. 234115) l’allegazione dell’atto processuale sul quale fonda la doglianza e da cui risulta l’elemento incompatibile con la ricostruzione operata.

Peraltro, deve, rilevarsi, quanto al profilo di censura, che il ricorrente, dietro l’apparente denuncia del vizio di travisamento della prova, non deduce la difformità del risultato della prova rispetto a quanto ritenuto dal Giudice in sentenza, ma propone una diversa lettura del risultato della prova stessa in chiave alternativa, secondo una prospettazione difensiva che è stata adeguatamente disattesa nella sentenza impugnata. A tale riguardo, la Corte ha precisato che il travisamento della prova consiste non già nell’errata interpretazione della prova, ma nella palese difformità tra i risultati obiettivamente derivanti dall’assunzione della prova e quelli che il giudice di merito ne abbia tratto, compiendo un errore idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio e rendendo conseguentemente illogica la motivazione.

Dunque, sotto questo primo profilo la censura è inammissibile.

6. Parimenti alcun vizio di illogicità e/o carenza nella motivazione è ravvisabile in relazione all’affermazione della responsabilità penale del ricorrente.

Il giudice del merito ha congruamente motivato l’affermazione della responsabilità del P. . Incontestato lo scarico dei reflui della lavorazione di prodotti caseari provenienti dalla società di cui il medesimo è legale rappresentante, il mal funzionamento dell’impianto di depurazione (anche i manutentori ne avevano in più occasioni attestato la condizione), il posizionamento a monte dell’impianto di una valvola bypass per far fuoriuscire dal circuito della depurazione i reflui e immetterli nella condotta fognaria, accertato che valvola non era presente nel progetto allegato alla richiesta di autorizzazione e che, dunque, successivamente era stata posizionata, il Tribunale ha ritenuto provata la condotta di scarico abusivo (attestata anche dalle plurime denunce dei cittadini che aveva dato origine all’indagine) delle acque provenienti dal ciclo produttivo della società di cui il ricorrente è legale rappresentante.

La motivazione è adeguata priva di illogicità e corretta sul piano del diritto. Ne consegue la manifesta infondatezza del motivo.

7. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art. 616 cod.proc.pen. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

[omissis]

Smaltimento di acque reflue: l’attività di autolavaggio deve sempre essere autorizzata?

Autorità: Cass. Pen. Sez. III
Data: 27/09/2017
n. 44439

In tema di acque reflue, con particolare riferimento all’attività di autolavaggio, l’iscrizione, e quindi la permanenza, nella lista degli artigiani costituisce un presupposto logico del legittimo svolgimento dell’attività stessa. Una volta venuta meno l’iscrizione, perché cancellata, non avrebbe senso dotarsi dell’autorizzazione allo smaltimento delle acque reflue. In ogni caso, quando viene contestata la mancanza dell’autorizzazione prescritta allo sversamento di reflui industriali in rete fognaria, non ha alcun rilievo la sussistenza di un rapporto contrattuale, in corso di svolgimento e avente ad oggetto lo smaltimento dei fanghi, con una ditta specializzata per il trattamento dei fanghi derivanti dallo svolgimento dell’attività di autolavaggio.

Leggi la sentenza

Ritenuto in fatto

Con sentenza del 17 marzo 2016 la Corte di appello di Catanzaro ha confermato la condanna alla pena di giustizia inflitta dal Tribunale di Cosenza nei confronti di I.V., riconosciuto responsabile del reato di cui all’art. 137 del dlgs n. 152 del 2006 per avere effettuato, in qualità di titolare di un impianto di autolavaggio, lo scarico delle derivanti acque reflue nella rete fognaria in assenza della prescritta autorizzazione in periodi andanti dal 12 novembre 2011 al 11 giugno 2012.
Ha interposto ricorso per cassazione il prevenuto, tramite il proprio difensore di fiducia, affidandolo a tre motivi di impugnazione.
Ha, infatti, dedotto il prevenuto, con il primo di essi, che la sentenza impugnata sarebbe illegittima in ragione della valutazione degli elementi indiziari operata dai giudici del merito.
Con il secondo motivo di impugnazione è stata dedotta la violazione delle norme processuali che regolano la affermazione della penale responsabilità degli imputati, essendo stata questa dichiarata, sebbene fossero emersi, alla luce della istruttoria dibattimentale svolta, quantomeno ragionevoli dubbi in merito alla sua sussistenza.
Col terzo motivo, infine, è stata eccepita la illegittimità della avvenuta esclusione delle circostanze attenuanti generiche sulla base di una motivazione ritenuta non adeguata.
In via del tutto subordinata il ricorrente ha, infine, eccepito la intervenuta prescrizione dei reati a lui contestati.

Considerato in diritto

Il ricorso è infondato ed esso, pertanto, deve essere rigettato.
Osserva, infatti, il Collegio quanto al primo motivo di doglianza che attraverso lo stesso il ricorrente cerca in realtà di rimettere in discussione l’avvenuto accertamento del fatto che egli svolgesse l’attività di gestore di un impianto di autolavaggio.
Trattasi di accertamento in fatto, frutto, secondo quanto riferito nella sentenza di merito, di ben due accessi svolti dagli organi della polizia municipale, non più suscettibile di essere posto in discussione in questa sede di legittimità; né può affermarsi che in sede di merito vi sia stata una qualche illegittima, in quanto congetturale, valutazione degli elementi indiziari emersi nel corso della istruttoria dibattimentale, posto che non può dirsi congetturale ma frutto di un plausibile ragionamento induttivo, l’affermazione della carenza della autorizzazione allo smaltimento delle acque reflue industriali rivenienti dallo svolgimento della attività di autolavaggio, essendo questa fondata sulla avvenuta cancellazione da parte del prevenuto dalla lista degli artigiani; infatti, essendo la permanenza in tale lista un presupposto logico del legittimo svolgimento della attività condotta dallo I., risulta del tutto ragionevole ritenere che, una volta venuta meno detta iscrizione, non avrebbe avuto senso, sulla base di una razionale valutazione del dato obbiettivo emerso (cioè lo svolgimento della attività e la cancellazione dalla lista degli artigiani), il dotarsi a quel punto della predetta autorizzazione per lo smaltimento delle acque reflue.
Il secondo motivo di impugnazione è parimenti infondato, posto che la contestazione mossa allo I.ha ad oggetto la mancanza della prescritta autorizzazione allo sversamento dei reflui industriali nella ordinaria rete fognaria e non la esistenza o meno di un contratto con una ditta specializzata per il trattamento dei fanghi derivanti dallo svolgimento della attività di autolavaggio; del tutto indifferente è, pertanto, ai fini del decidere la circostanza, peraltro piuttosto genericamente allegata dal ricorrente (non è, infatti, chiaro dal tenore del ricorso in quale maniera sarebbe stato possibile attribuire data certa al predetto contratto anteriore alla data in cui risulta essere stata contestata la contravvenzione a carico del ricorrente), che lo I.avesse o meno in corso di svolgimento una rapporto contrattuale avente ad oggetto lo smaltimento dei fanghi.
Infine per ciò che concerne il mancato riconoscimento delle circostanze attenuati generiche, la Corte territoriale le ha escluse in ragione del condivisibile argomento dettato dalla non breve durata della condotta illecita, protrattasi almeno per più di sei mesi, sicuro indice di una, non occasionale ma, radicata indifferenza da parte del prevenuto al rispetto dei valori della tutela ambientale.
Va, al riguardo, detto che il ricorrente non ha evidenziato alcuna ragione – ove si eccettui la sua incensuratezza, fattore questo normativamente irrilevante se valutato isolatamente ai fini della concessione delle attenuanti generiche – che avrebbe potuto, secondo la sua stessa prospettazione, fondare una valutazione di nneritevolezza da parte sua dell’invocato beneficio.
Quanto alla eccezione subordinata di prescrizione, essa non ha fondamento, posto che – tenuto conto del tempus commissi delicti, andante dal 12 novembre 2011 al 11 giugno 2012, della natura contravvenzionale dell’illecito contestato al prevenuto nonché della intervenuta sospensione del corso della prescrizione dovuta al differimento del giudizio per legittimo impedimento del difensore dell’imputato dal 1 luglio 2014 al 1 settembre 2014 – il termine prescrizionale del reato contestato sarebbe maturato, per le condotte più risalenti nel tempo, solamente a decorrere dal 12 gennaio 2017.
Al rigetto del ricorso fa seguito la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
[omissis]

Attività artigianali e di servizi: rientrano negli scarichi industriali?

Autorità: Cassazione Pen., Sez. III
Data: 03/11/2015
n. 44353

Nella nozione di acque reflue industriali rientrano tutti i reflui derivanti da attività che non attengono strettamente al prevalente metabolismo umano ed alle attività domestiche, cioè non collegati alla presenza umana, alla coabitazione ed alla convivenza di persone; conseguentemente sono da considerare scarichi industriali, oltre ai reflui provenienti da attività di produzione industriale vera e propria, anche quelli provenienti da insediamenti ove si svolgono attività artigianali e di prestazioni di servizi, quando le caratteristiche qualitative degli stessi siano diverse da quelle delle acque domestiche.

Reflui provenienti da un’officina meccanica: in quale categoria di scarichi rientrano?

Autorità: Cass. Pen. Sez. III
Data: 08/02/2017
n. 5751

Ai fini della integrazione del reato di scarico non autorizzato ex art. 137, D.Lgs. 152/2006, rientrano nella nozione di acque reflue industriali tutti i tipi di acque derivanti dallo svolgimento di attività produttive; è d’altronde del tutto ovvio che le acque reflue provenienti da un’area di lavoro come quella che è una officina meccanica assimilano la natura industriale della attività che su tale area si esercita, per cui non possono non rientrare nella categoria delle acque reflue industriali.

Il rilascio dell’autorizzazione può eliminare un reato già commesso?

Autorità: Cass. Pen., Sez. III
Data: 24/07/2017
n. 36662

In tema di inquinamento idrico, il reato di scarico non autorizzato di acque reflue industriali, previsto dall’art. 137 del D.L.vo n. 152 del 2006, permane anche in caso di successivo rilascio dell’autorizzazione: il titolo abilitativo, una volta ottenuto, rende infatti lecita la sola condotta successiva al suo ottenimento, mentre non comporta il venir meno, né l’attenuazione delle conseguenze del reato ambientale già commesso.

Violazione disciplina regionale delle acque meteoriche di dilavamento: quale sanzione?

Autorità: Cass. Pen. Sez. III
Data: 14/03/2017
n. 12163

In materia di acque meteoriche di dilavamento, mentre l’art. 133, comma 9 del d.lgs. 152/2006 sanziona in via amministrativa chiunque non ottemperi alla disciplina dettata dalle regioni ai sensi dell’art. 113, comma 1, lett. b), ossia per la violazione delle prescrizioni o delle autorizzazioni disposte in sede regionale, l’art. 137, comma 9, prevede una sanzione penale per chiunque non ottemperi alla disciplina dettata dalle Regioni ai sensi dell’art. 113, comma 3, riguardante i casi in cui può essere richiesto che le acque di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne siano convogliate e opportunamente trattate in impianti di depurazione per particolari condizioni nelle quali, in relazione alle attività svolte, vi sia il rischio di dilavamento da superfici impermeabili scoperte di sostanze pericolose o di sostanze che creano pregiudizio per il raggiungimento degli obiettivi di qualità dei corpi idrici (nella fattispecie in esame – relativa a scarichi di acque meteoriche di dilavamento provenienti da attività di escavazione di cava attraverso tubazione di ferro appositamente predisposta, effettuati senza autorizzazione e senza aver presentato il piano di gestione nei termini previsti secondo quanto disposto dalla normativa regionale Toscana – è stata ritenuta applicabile la sanzione penale di cui all’art. 137).

Scarichi di acque reflue industriali: quando sussiste il reato?

Autorità: Cass. Pen.
Data: 03/11/2016
n. 46152

Nell’effettuazione di uno scarico di acque reflue industriali il superamento dei limiti tabellari integra sempre e in ogni caso – non essendovi alcuna disposizione di legge in contrario – il reato contestato, quale che sia l’operazione che viene svolta attraverso il sistema di depurazione: il d.lgs. n. 152/2006, art. 137, comma 5, punisce, infatti, senza prevedere eccezioni, chiunque, in relazione alle sostanze indicate nella tabella 5 dell’Allegato 5 alla parte terza del presente decreto superi i valori limite fissati nella tabella 3 o, nel caso di scarico sul suolo, nella tabella 4 dell’Allegato 5 alla parte terza del citato decreto, oppure i limiti più restrittivi fissati dalle regioni o dalle province autonome o dall’Autorità competente.

Acque reflue industriali: come classificarle correttamente?

Autorità: Cassazione Pen., Sez. III
Data: 30/08/2016
n. 35850

Per identificare correttamente le acque reflue industriali occorre procedere a contrario, ossia escludere le acque ricollegabili al metabolismo umano e provenienti dalla realtà domestica: ciò in quanto la rilevanza penale dell’illecito in materia di scarichi presuppone che lo scarico abbia ad oggetto acque reflue industriali, ed in questa nozione (ex art. 74, comma 1, lett. h, del D.L.vo 152/06) rientrano tutti i tipi di acque derivanti dallo svolgimento di attività commerciali e produttive, in quanto detti reflui non attengano prevalentemente al metabolismo umano ed alle attività domestiche di cui alla nozione di acque reflue domestiche, (ex art. 74, comma 1, lett. g, del D.L.vo 152/06) (fattispecie relativa alle acque reflue prodotte da un centro di emodialisi che, in quanto provenienti da un’attività che ha ad oggetto l’effettuazione di prestazioni terapeutiche, ed essendo caratterizzate dalla presenza di sostanze estranee sia al metabolismo umano che alle attività domestiche, sono qualificate come acque reflue industriali ed il loro scarico non autorizzato configura il reato di cui all’art. 137, c. 1, D.L.vo 152/06).

Sono scarichi industriali anche quelli provenienti da attività artigianali?

Autorità: Cassazione Pen., Sez. III
Data: 24/05/2013
n. 22436

Nella nozione di acque reflue industriali rientrano tutti i reflui derivanti da attività che non attengono strettamente al prevalente metabolismo umano ed alle attività domestiche, cioè non collegati alla presenza umana, alla coabitazione ed alla convivenza di persone; conseguentemente sono da considerare scarichi industriali, oltre ai reflui provenienti da attività di produzione industriale vera e propria, anche quelli provenienti da insediamenti ove si svolgono attività artigianali e di prestazioni di servizi, quando le caratteristiche qualitative degli stessi siano diverse da quelle delle acque domestiche.

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